Il Ristorante Cinese

gatto comunità cinese

Dalla tradizione al Generale Tso, il menù dei ristoranti cinesi in Italia. Due chiacchiere con i ristoratori della comunità cinese.

Tempo fa ho letto un articolo che, ovviamente, non riesco più a ritrovare. L’autore raccontava della coesistenza nei ristoranti della comunità cinese di Londra di due menù, uno cartaceo in inglese e uno affisso al muro in cinese. I due menù avevano contenuto diverso, nel secondo, per capirci, non c’era neanche l’ombra del Generale Tso. Non ho certezze dell’attendibilità di questa storia, ma di tanto in tanto mi è tornata in mente.

Così, ho scambiato due chiacchiere con alcuni ristoratori della comunità cinese della mia città – in Puglia – con cui ci siamo raccontati le nostre esperienze all’estero. Il loro estero è l’Italia. 

La maggior parte dei cinesi che oggi vive qui è arrivata negli anni ‘80 dalla regione dello Zhejiang. Un elemento in comune tra i loro racconti è l’essersi reinventati cuochi in Italia, dopo aver fatto la gavetta in altri ristoranti cinesi, e aver avuto la possibilità alla fine di aprire il proprio ristorante.

La cucina cinese, forse più di altre, riflette i gusti del territorio che la ospita e la cucina tradizionale lascia il posto a piatti nuovi – anche presi in prestito dal paese del Sol Levante – che rispondono alle aspettative della clientela. I piatti autentici non sono affissi neanche al muro, la clientela cinese qui è quasi del tutto assente. Mi raccontano che i rari clienti della comunità cinese ordinano sushi, del resto è un piatto esotico tanto per noi, quanto per loro. Dalla cucina escono gli stessi identici piatti in tutti i ristoranti, semplici e veloci da realizzare. Solo tra le mura domestiche si riprende contatto con la tradizione, i tempi di preparazione si allungano, i cibi diventano piccanti – non agrodolci come nei ristoranti – e gli ingredienti più difficili da reperire. 

La ricerca della propria tradizione, che immaginavo essere punto cruciale nella vita da migranti, nelle loro esperienze sembra passare in secondo piano. D’altronde, a pensarci bene, io stessa non ero attratta dai sedicenti ristoranti italiani quando vivevo in Canada. Il pensiero delle Fettuccine Alfredo mi fa ancora venire la pelle d’oca, per non parlare poi della Chicken Parmesan in Australia. Forse si diventa refrattari quando la cucina si adatta molto ai gusti locali, finendo per avere un piatto in cui non ci si riconosce, vago ricordo di quello che è stato e tutto sommato alieno ai propri gusti e ai propri ricordi.

Chiedo loro se sia rimasta traccia dello Zhejiang nei piatti proposti nel menù, probabilmente solo il tofu piccante conserva timidamente qualche caratteristica. 

In Italia bisogna andare in città più grandi per avere un’offerta più autentica. A Bari, ci dicono ci sia un ristorante che propone lo huǒguō – l’hot pot – e qui sembra ci sia accordo nel dire che quella sia cucina cinese. Una comunità più grande garantisce la sopravvivenza delle tradizioni. 

Alla domanda, perché non proporre lo stesso piatto qui, rispondono tutti allo stesso modo: i  clienti non sarebbero disposti a spendere di più per provare qualcosa di diverso. I piatti tradizionali necessiterebbero di tempi più lunghi e i costi degli ingredienti salirebbero. 

E poi c’è la questione dei gusti. Quanto siamo pronti ad allargare i nostri orizzonti? 

Allora mi domando se forse si sarebbero dovuti proporre i piatti autentici sin da subito per creare quell’abitudine che avrebbe potuto difendere la tradizione. Credo che queste operazioni, in realtà, procedano per stadi, magari stiamo ancora aspettando l’inizio di un nuovo giro in cui ci verranno proposti piatti finora sconosciuti, d’altronde l’hot pot a Bari potrebbe essere un segnale premonitore. Magari invece abbiamo già visto tutto quello che mai avremo a disposizione. Difficile da prevedere, immagino, come molti comportamenti sociali. 

Per il momento sembra che non si abbia molta voglia di sperimentare da entrambe le parti. Si preferisce andare sul sicuro e assicurarsi di soddisfare le richieste della clientela piuttosto che assumersi il rischioso compito di educare i clienti spingendo l’asticella sempre più in là. 

La figlia di uno dei ristoratori ci racconta che quando i suoi amici le chiedono di provare piatti tradizionali spesso, poi, non azzardano l’assaggio. A volte è una questione di gusto, il piccante per esempio è un gusto che va abituato, altrimenti è pura sofferenza. Ma a volte c’è una barriera culturale a frapporsi tra l’avventore e il piatto. Quell’atavico sospetto verso ciò che non conosciamo, quel “noi non siamo abituati”, quella non familiarità con ingredienti e tecniche fa sì che alcuni piatti siano inaccessibili. Chissà, forse se sapessimo cosa stiamo mangiando solo dopo averlo fatto ci aiuterebbe ad apprezzare veramente quello che abbiamo messo in bocca senza pregiudizi.

Io credo che una base di pregiudizio sia dura a morire, ma sul “noi non siamo abituati” possiamo lavorarci su.

Una cosa l’ho capita, ognuno ha la sua hawaiian pizza, la loro è il pollo alle mandorle.

Condividi

Questo articolo ha un commento

  1. Alessandra

    Grazie per questa village story, molto interessante. A Londra mi è capitato più volte di assaggiare piatti autentici, dai ristoranti vietnamiti a Hoxton a quelli colombiani a Elephant and castle, ma esistono perché ogni quartiere ha il suo piccolo gruppo etnico e i ristoranti propongono piatti originali conoscendo la clientela. Speriamo che piano piano “l’italiano medio” inizi ad avere più curiosità e apertura verso i sapori diversi.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.