Food Adventurer

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Identikit di un Food Adventurer

Di fronte a un piatto sconosciuto ci sono due tipi di persone, quello che ha cercato meticolosamente il ristorante in cui trovarlo, magari anche a costo di una lunga fila, e quello che rimpiange il piatto di casa mentre cerca nel menù la cosa più familiare possibile. Per il primo tipo, quasi 20 anni fa, è stata coniata un’espressione: Food Adventurer.

Food Adventurer è quella persona per cui il cibo è “an expedition into the unknown, a pursuit of the strange”. Questa è la definizione che Lisa Heldke dà nel suo libro Exotic Appetites: Ruminations of a Food Adventurer. Heldke è professoressa di filosofia al Gustavus Adolphus College in Minnesota e le sue aree di ricerca comprendono etica, cibo, razzismo e femminismo.

Nell’identikit del Food Adventurer, nel bene e nel male, mi sono in parte riconosciuta. Un paio di anni fa avevo letto di un tè freddo coperto da uno strato di crema al formaggio che si stava diffondendo in California e nel giro di qualche giorno avevo scovato un posto che lo faceva a Montreal. 

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Nota a margine: il tè freddo in questione era troppo dolce, ma l'idea era lodevole. Allego documentazione fotografica per gli scettici.

Dunque, chi è il Food Adventurer?

Il Food Adventurer di Heldke è una persona curiosa, che cerca esperienze culinarie autentiche, esotiche, preferibilmente stravaganti. Non sorprende che in una società attratta dall’aspetto esperienziale delle cose, il cibo perda concretezza e diventi mezzo per nuove esperienze. Il Food Adventurer è alla costante ricerca della novità, il che impedisce di approfondire la cucina a cui si sta approcciando poiché il tempo dedicato è minimo, dura fino alla novità successiva. 

È, d’altro canto, alla ricerca del piatto autentico, disdegna i franchise e perde ogni interesse nei confronti dei cibi che, un tempo di nicchia, diventano mainstream sugli scaffali della grande distribuzione.

Il leit motiv è sperimentare, esplorare, ma anche conoscere per accumulare i cultural sophistication points, il capitale culturale, per dirla alla Bourdieu. 

Colonialismo Culturale del Cibo

Heldke nel suo libro indaga le connessioni tra l’interesse degli occidentali nei confronti del cibo, cosiddetto etnico, e l’eredità del colonialismo europeo.

Sviscera una lunga serie di comportamenti molto comuni, tendenzialmente sottovalutati e considerati ingenuamente innocui. Il fascino patinato dei Food Adventurers nei confronti di una cucina lontana, la supponenza nell’utilizzare una ricetta esotica come base a cui apportare modifiche (considerate addirittura migliorie), l’ossessione per i cibi che crescono dall’altra parte del mondo, i menù fantasiosi spacciati per autentici, o la presunzione di raccontare una cucina che non si conosce profondamente, sono tutti esempi di un’eredità coloniale che stenta a scomparire.

Come scrollarci di dosso l’eredità del colonialismo?

Heldke spiega che l’interesse nel cibo degli altri non è problematico di per sé, ma diviene tale quando il valore di una cucina si misura con esso e con il beneficio che si può trarre. Questo meccanismo diviene problematico quando è l’unico modello, che conosciamo, di relazione con l’altro. La dinamica che si innesca è quella del mordi e fuggi. La cucina è per definizione scambio e lo scambio è bilaterale, mentre le dinamiche descritte sopra sono tutte unilaterali, in cui il controllo dello scambio è saldamente in mano a una sola delle parti. 

La questione di come approcciarsi al cibo senza ricadere in una forma di neocolonialismo culturale è complessa ed Heldke offre alcuni spunti di riflessione.

Partendo dal presupposto che in virtù del colore della pelle, della classe, dell’istruzione o del genere, non si possa sfuggire al privilegio esercitato per ogni scelta fatta o azione compiuta, la proposta di Heldke è di “mangiare autoriflessivo” riportando al centro della questione lo smantellamento di questo privilegio

The question we must ask is not “How can we avoid privilege?” but “How can we work to undermine the structures that give me privileges in the first place?”

In un’ottica lontana dall’atteggiamento missionario della Good White Person, ossia del colonizzatore benevolo e, in cui la mera conoscenza di una cultura altra, intesa come indagine unidirezionale, non fa altro che rafforzare la relazione tra soggetto indagatore e oggetto indagato, un atteggiamento anticolonialista alimentare comincia, secondo Heldke, con la perdita di autorità.

Perdere autorità significa perdere centralità, creare nuove dinamiche in cui non si ricopre né il ruolo (peraltro autoconferito) di autorità colta, né quello di allievo avido di acquisire quelle conoscenze che consentono di tornare nel ruolo di esperti. 

Exotic Appetites: Ruminations of a Food Adventurer è un libro complesso, che offre continui momenti di riflessione su atteggiamenti banali ma non per questo innocui. 

Essere solidali apre possibilità di resistenza a un’eredità coloniale troppo pesante e suggerisce nuovi modi per immaginare relazioni sociali non opprimenti. Si può essere Food Adventurer senza scomodare secoli di storia di certo non edificanti. E’ un processo, ed è fatto da pratiche quotidiane. 

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