Perché Non Dovremmo Parlare di Cucina Etnica

cucina etnica

La pigrizia delle parole salva decenza

Non ho mai sentito nessuno definire la Pavlova una torta etnica ma probabilmente la Kuih Bingka Ubi avrebbe buone possibilità di aggiudicarsi l’etichetta. Cosa rende un cibo etnico, dunque?

Spoiler alert: niente.

In effetti sarebbe più appropriato chiedersi perché lo definiamo etnico.

Etnico non è sinonimo di straniero, del resto il Mars fritto scozzese è straniero ma non è per niente etnico.

Etnico è una parola facile, che ci toglie dal disagio di non sapere il paese di origine e nel peggiore dei casi neanche l’area geografica. Quella spezia, quel piatto è etnico perché non sappiamo come definirlo senza rischiare di cadere nel problema della razza che ci mette a disagio. È l’aggettivo salva decenza. Eppure nel razzismo rischiamo inconsapevolmente di sguazzarci. La parola etnico nel suo uso più comune ci fa venire in mente una natura tribale, e per questo non ci sogneremo mai di affiancarla ai muffin con i mirtilli, ma non ci fa storcere il naso a fianco a un curry.

In soldoni più scura è la pelle di chi cucina più è probabile che quel piatto venga definito etnico.

Quindi cosa intendiamo per cucina etnica?

È un mix tra non so dove diavolo si trovi quel paese e il colore della pelle dei suoi nativi ed è uno dei modi più diffusi e più subdoli di marcare le differenze nei gusti e nelle culture. Non pronunciamo le parole tabù ma troviamo altri modi per fare distinzioni.

La buona notizia è che da questa pozzanghera delle parole, che tutto sono tranne che salva decenza, se ne esce.

Più conosciamo una cultura meno siamo propensi a definirla etnica. Se ci ostiniamo a vedere le cose da lontano sarà impossibile comprenderle.

Avviciniamoci allora.

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