
Cucina Esotica Domestica
Anni fa la campagna pubblicitaria della TFL — Transport for London — recitava Travel around the world without leaving London. Mi è tornata in mente questa frase mentre riflettevo su cosa intendiamo per cucina esotica. Di certo il loro messaggio non aveva lo stesso intento di quello che sto per scrivere, ma si presta bene.
Tendenzialmente siamo tutti affezionati alla nostra zona di comfort e questo si applica a pressoché tutti gli aspetti della nostra vita. Tuttavia decidiamo di viaggiare e di mangiare piatti esotici, e il più delle volte ci approcciamo a queste due attività con la stessa attitudine.
Il fascino del nuovo
Siamo sedotti dal fascino del nuovo, dal prestigio dell’esotico, dalla sindrome dell’esploratore, ma talvolta la caravella invece di fare il giro del mondo e scoprire posti a noi nuovi ci porta al portone accanto. E a noi questo sta bene perché il giro del mondo non avevamo nessuna intenzione di farlo dal principio, ma prendiamo il portone accanto come fosse il nuovo mondo.
Quante volte vi è successo di ordinare dallo stesso menù riso alla cantonese e sushi? O di vedere la ricetta dei dorayaki con la nutella? — per un periodo è stata costantemente tra i miei video consigliati di YouTube. Quante volte vi è successo di versare la salsa di soia sui noodles e dire che avevate cucinato cinese?
Non punto il dito, lo facevo anch’io e temo di farlo ancora.
Che il gelato fritto in Cina non si frigga e che il riso alla cantonese non abbia un granché di cinese mi sembra una banalità che posso risparmiarvi.

Il multiculturalismo filtrato
Eppure il nostro rapporto con la cucina straniera ci dice molto sul nostro approccio al multiculturalismo.
Va bene tutto, purché non si allontani dai nostri canoni, ed è un attimo che “Travel around the world without leaving London” si trasformi in “Dorayaki sì, crema di azuki no”. Il cibo esotico lo vogliamo riconoscibile, incasellabile e controllabile. Lo vogliamo familiare e addomesticabile ad ogni costo. Non ci interessa la sua origine, la sua storia, a volte non ci interessa nemmeno se i piatti del ristorante in cui siamo seduti siano realmente del paese pubblicizzato sull’insegna. Siamo invece più appagati dalla sensazione di ritorno, quella che ci fa sentire tronfi dell’aver osato, che ci fa sentire in un certo modo sofisticati nell’aver scelto di mangiare esotico.
Ordinare quel piatto non ci avvicina a quella cultura, fa l’opposto. Quella xenofobia culinaria è implicita ogni qualvolta accettiamo, senza porci domande, che un piatto rispecchi la nostra idea di esotico senza allontanarsi dai nostri gusti. Esiste ogni qual volta accettiamo che sia un compromesso tra la nostra identità culinaria e quella che noi immaginiamo essere la loro. I nostri gusti diventano l’ago della bilancia del multiculturalismo. Filtriamo la loro cultura e la ridefiniamo secondo i nostri parametri.
E se smettessimo di farlo? Se iniziassimo a dar valore alle altre culture? Se smettessimo di semplificare fino al midollo e iniziassimo a restituire complessità? Del resto, quando gli altri siamo noi, la pasta con il ketchup, proprio non ci va giù.